elogio all'ozio



Atti del convegno di Todi del 19/05/2012
Rel. Massimo Rosolini
“Chi non si ferma è perduto”
Trattazione semiseria sull’ozio
   Cari amici,
             come è  a voi tutti ben noto, tra le bestialità del fascismo ci fu il motto “ chi si ferma è perduto”.
 Motto, prima che tragico, esagerato, perché, anche a voler aderire all’idea atroce ed arbitraria della vita ridotta ad una corsa o ad una marcia, si dovrà convenire che chi si ferma semmai resta indietro, e non si vede perché debba anche perdersi.
Quale sfiducia nell’essere umano! A cui non si riconoscono risorse individuali e si attribuisce il destino di perdersi appena smarrito il gruppo, la comunità dei corridori alla quale appartiene e senza la quale non è nulla. Se poi il movimento a cui si allude è un movimento da fare soli, siamo al ridicolo. La verità è che per convenzione implicita, il motto, che forse precede il fascismo stesso e che certamente gli è sopravvissuto adattandosi alla interpretazione borghese mercantile contemporanea, allude al movimento di una corsa da correre in gara con gli altri, contro gli altri, allo scopo di superarli, per vincere nella guerra della vita, magari sgomitando vigorosamente nella speranza che più d’uno dei concorrenti si fermi e, secondo il motto, si perda. Una specie di “mors tua vita mea” a cui normalmente vengono precocemente addestrati anche i bambini. Qualcuno pronuncia il motto sospirando, per far vedere che non è d’accordo e che se fosse per lui le cose andrebbero diversamente, e che se vanno così è sempre per colpa di qualcun altro, ma lo fa pensando che,  visto che le cose vanno così, è da fessi non uniformarvisi. E’ il caso, molto diffuso, del corridore ipocrita. O del corridore debole, che è così debole da non avere la forza di fermarsi.

Purtroppo, conseguenza o premessa di questa visione della vita è che la vita stessa  sia una lotta per la sopravvivenza. Visione mutuata dal mondo degli animali a cui viene applicata una versione volgare delle teorie sulla selezione naturale. Sennonché gli animali a queste cose non ci pensano proprio e vivono meglio di noi.
Questa idea della vita come di un posto in cui non si possa stare in pace è la specifica perversione dell’uomo; direi, con un altro linguaggio, il suo lato diabolico. Lato che per fortuna, e nonostante l’opinione corrente, non prevale mai del tutto, come dimostra il fatto che, pur considerata quasi come una fregatura, la vita sulla terra non si è ancora estinta. Voglio dire che benché pensando ad essi come lottatori e corridori, si mettono al mondo ancora innumerevoli bambini e qualcosa ci può ragionevolmente far pensare che, magari senza saperlo, lo si fa anche per qualche altro motivo.
Il motivo c’è e tutti lo sanno, solo che se lo dimenticano facilmente. Il motivo sarebbe la vita stessa che è l’unica cosa che non ha bisogno di motivi. Cedendo al gusto per l’effetto direi che essa non ha motivo, o, per essere dottorale, che essa si automotiva etc.. Questa cosa la sappiamo tutti anche senza saperlo e chi se la dimentica del tutto comincia ad interrogarsi sul senso della vita, o della sua vita, sbatte la testa al muro, si aggira sconsolato, si ammala, e per fortuna spesso ricorre alle cure mediche. Inutile ricordare che nell’età contemporanea la cosa ha afflitto intere generazioni.
Questa cosa che sappiamo tutti, ma che tutti tendono a dimenticare, per ricordarsela bisogna fermarsi un attimo. E non, come si direbbe, fermarsi a pensare, ma fermarsi e basta.
Questo,  che è il fondamento nobile dell’ozio, è, nel mondo contemporaneo, un tabù. La cosa non è immediatamente comprensibile, ma è un fatto che in una società in cui ormai tutti i comportamenti sono ammessi e anche quando considerati reato non scandalizzano in se stessi proprio più nessuno, l’unico comportamento inammissibile e, diciamo così, scandaloso è rimasto quello di chi non fa nulla. Si possono tentare varie spiegazioni tra cui quella che quando vediamo qualcuno che corre, escluso il caso di chi lo fa per sport, le interpretazioni sono due: che lo faccia per raggiungere qualcosa o che lo faccia per fuggire da qualcosa. E nel caso di chi corre sempre dobbiamo credere che questo non riesce mai a raggiungere quello che insegue o che fugge da qualcosa da cui non riesce mai a distanziarsi; nel quale ultimo caso si tratta evidentemente di qualcosa che lo insegue sempre, che corre insieme a lui, e,dunque, anche solo per esclusione, non è retorico dedurre che fugga da se stesso.
In ogni caso c’è da credere che tema di fermarsi, che tema di non raggiungere qualcosa che - si è visto - non raggiunge mai, o che tema di essere raggiunto. E abbiamo fatto l’ipotesi che sia inseguito con tanta tenacia proprio dall’unico che gli sta incollato addosso, e cioè da se stesso. E si può credere che quello a cui vorrebbe dare una gomitata in bocca per vederlo perdersi è proprio lui.
Se questa ipotesi è vera, possiamo dire che uno dei principali impedimenti a che, chi corre sempre, si fermi, sono i pessimi rapporti che questo ha con se stesso. (l’esperienza insegna che quando questi migliorano, in genere, se non ci si ferma, almeno si rallenta.)
Per una significativa specularità, si deve anche aggiungere però che i pessimi rapporti con se stessi corrispondono (essendone la causa) a pessimi rapporti con gli altri.
Che cosa voleva dire Blaise Pascal quando avvertiva che: “tutti i guai che affliggono gli uomini derivano dal non sapersene restare a riposo in una stanza”?
 Che cosa c’è di più facile che restarsene a riposo in una stanza? Eppure secondo Pascal la cosa non deve essere tanto facile se il non saperlo fare produce nientemeno che tutti i guai che affliggono gli uomini. Ed è noto che gli uomini sono afflitti da tanti guai, sia oggi che ai tempi di Pascal.
Dunque, se qualcosa che risolverebbe tutti i guai degli uomini non è da questi praticata vuol dire o che è molto difficile praticarla  o  che è ritenuta sbagliata. Personalmente, tra il parere degli uomini in genere e quello di Pascal, mi fido più di Pascal, e poi non credo che gli uomini in genere si siano mai posti la questione in questi termini. Essi semplicemente escludono che qualcosa possa essere risolta non facendo niente.
Certo è che per avere effetti così importanti  qualcosa di molto serio deve pur accadere mentre si sta a riposo in una stanza. Ma se leggiamo bene Pascal notiamo che egli mette l’accento, prima che sul restare a riposo in una stanza, sul saperlo fare. La questione sarebbe non tanto che non lo si fa, ma che non lo si sa fare. Il che vuol dire che  la cosa importante che deve accadere accade prima del fatto, e il fatto non è che la prova che la cosa è accaduta.  Dunque il vero problema sarebbe che i più non  riescono a farlo e siccome la cosa in termini materiali, tecnici, oggettivi non è difficile, ma anzi facilissima, si direbbe la cosa più facile di tutte, il fatto che i più non ci riescano riguarda qualcosa che materiale, tecnica, oggettiva, non è. Il che ci autorizza a sospettare che si tratti di qualcosa di spirituale, soggettivo, e che non riguarda il fare ma il sentire. Dove spirituale può essere tradotto, da chi vuole, nel più corrente: psicologico.
C’è chi dice continuamente “io senza fare niente non ci so stare” e lo dice in genere sorridendo, felice di aver trovato una formula molto comune che spiega senza spiegarlo qualcosa di inspiegabile e che è invece preoccupante.
Tentiamo francamente una ipotesi: la maggior parte degli uomini non sa fare questa cosa semplicissima perché ne ha paura. Lo so, paura è una parola grossa, ma come dovremmo chiamare quel sentimento di disagio che prende i più quando si trovano senza motivo, a riposo, isolati, o meglio soli con se stessi, mentre immaginano intorno a loro un mondo che si muove, che fa, che lavora, che punta a risultati e si impegna a conseguirli, che si stanca, che si agita, che non sta fermo un minuto? Un mondo di gente che rispetta orari, agende, calendari ed altri marchingegni che misurano il tempo e che angosciano, ma che possono dare - che si spera in continuazione che diano- la certezza di non averlo perso. Come dobbiamo chiamare il timore o l’ansia di perdere tempo che tormenta costoro e che dopo un po’ li costringe ad alzarsi dalla poltrona o dal letto e a precipitarsi in strada per recuperare il tempo perso? Chi fa così corre verso qualcosa, ma noi abbiamo già fatto l’ipotesi che lo stesso movimento può esser visto come un ‘andare verso’ oppure come un ‘fuggire da’ e niente ci vieta di pensare che scappino da qualcosa che li ha spaventati.
Ho detto prima che questo può capitare a chi si trova senza un motivo in condizione di riposo. Cambiando di poco si può dire che questo capita a chi si trova in condizione di riposo senza una giustificazione. La differenza lessicale non è grande ma aiuta a capire. Soprattutto aiuta a capire che il punto non è il riposo ma la sua giustificazione. Gli uomini non disprezzano il riposo e lo dimostra il fatto che appena possono giustificarlo lo praticano in abbondanza. Questo soprattutto quando del riposo stesso, date certe circostanze, si può dire che è meritato. E’ il caso degli eroi di guerra, dei sopravvissuti a spaventose sciagure in cui si sono prodigati per aiutare il prossimo perdendo del loro,di quelli che dopo una vita di lavoro vanno in pensione, qualche volta solo per andarsene all’altro mondo etc.. Ma un altro modo di giustificarlo è la malattia, e sappiamo quanto sia praticata, al limite dell’illegale, la produzione di certificati che la dichiarano.
Protetti da un qualche giustificazione, gli uomini amano l’ozio e lo praticano e io credo che se qualcuno, nonostante la giustificazione, continua a dire che lui senza fare niente non ci sa stare, vuol dire solo che la giustificazione adottata è insufficiente, ovvero che pare a lui insufficiente, e questo non gli dà pace.
Domandiamoci allora, quando una giustificazione è insufficiente. Ovvero quando continua a sembrare insufficiente a chi la produce pur avendo tutti i caratteri di una giustificazione efficace. Possiamo rispondere che in questi casi la giustificazione è insufficiente  agli occhi di chi si giustifica perché non riesce a soddisfare proprio lui. Se ne deduce che il giudice più inflessibile è proprio chi si giustifica. E d’altra parte non sarebbe così interessato alle giustificazioni se non fosse un giudice, cioè uno che si occupa di stabilire ciò che è giusto e ciò che non lo è. Questo spiega in parte l’ipotesi del correre come fuga, e come fuga da se stessi, perché è certamente comprensibile  che ci si voglia sottrarre allo sguardo di uno che è il più inflessibile giudice che si possa incontrare. Figuriamoci restare chiusi con uno così, soli, in una stanza.
Ma perché il giudice più inflessibile sarebbe proprio lui? Lasciando stare Freud che lo spiega a modo suo molto bene, si può pensare che se il giudice più severo è proprio il giudicato, questo capita perché ciascuno dice a se stesso “prima che me lo dicano gli altri, me lo dico da solo”, sottinteso: che questo e quello non si fa, che dovrei fare cosi e così, che non valgo niente, che sono uno sfaticato, inaffidabile, fesso, fallito, puerile, ridicolo,etc. Questo di dirselo da soli è una difesa. Una difesa mediocre e inefficace, ma che dà almeno la soddisfazione di far arrivare tutti gli altri per secondi. Naturalmente per quanto questa preoccupazione si autogeneri, (voglio dire che in genere a nessuno passa per la testa di accusarci di nefandezze appena ci riposiamo. Un po’ perché spesso non lo sa, un po’ perchè non gliene importa niente) essa non si manifesterebbe proprio se non fosse vera una lunga tradizione di accuse reciproche che, non si sa perché, gli uomini amano lanciarsi da che mondo è mondo.
Una spiegazione è l’invidia, ma è una spiegazione che non spiega granché, perché resta da spiegare perché si dovrebbe essere invidiosi. Considerando anche il fatto che sdraiarsi a letto o sedersi in poltrona è una cosa, più o meno, alla portata di tutti.
Una, più generale,  che non esclude l’invidia, è che accusando qualcuno di qualcosa, criticandolo, censurandolo, si ottiene il risultato di scansare per un po’ le accuse le critiche le censure che temiamo sarebbero dirette a noi.
 Ma perché dovremmo temere di ricevere accuse, critiche e censure?
Qui sta un punto rilevante.
E’ intuibile che chi si attende di ricevere accuse, critiche e censure se lo attende perché crede di meritarsele. Questo è normale in chi sa di aver commesso qualcosa di censurabile etc., ma diventa inspiegabile in chi non ha fatto niente di male. Sennonché trovare qualcuno che sia incrollabilmente certo di non aver fatto niente di male non è una cosa così semplice.
Questa curiosa condizione, che è così ampia da poter essere considerata una condizione del genere umano, ci introduce al tema della colpa o meglio al senso di avere una qualche colpa, insomma, al senso di colpa.
Per quale motivo, chi più, chi meno, tutti siano afflitti dal senso di avere qualche colpa, non è chiaro, o meglio non è facile da spiegare o, meglio ancora, sarebbe troppo lungo farlo e si rimarrebbe comunque nel campo delle ipotesi. Ma è un fatto che è così, e per accertarsene basta stare un po’ attenti. Attenti a se stessi e agli altri.
Sia detto per inciso, questa è proprio una di quelle cose che si notano meglio fermandosi.
Naturalmente la maggior parte dei viventi interrogato sulla cosa risponderebbe “io no, quale colpa?”, e direbbe la verità. Il curioso è infatti questo: sentirsi in colpa senza averne. Non dico che l’umanità sia composta solo di innocenti, anzi. Ma il senso di colpa di cui parliamo non è relativo a colpe esplicite di cui ci si sia macchiati in qualche precisa circostanza (anche se pure queste possono pesare), ma un indefinito sentimento di cui normalmente non ci si accorge, ma che produce i suoi effetti. Non si tratta, cioè, di conti rimasti aperti con gli altri, ma, diciamo così, di conti rimasti aperti con se stessi, che però per un curioso caso, vengono da noi percepiti come conti aperti con gli altri. Tra parentesi, è qui che sorge il conflitto con gli altri che un filosofo francese ha persino definito: l’inferno. Non il conflitto, ma proprio gli altri. Infatti dice: “L’inferno sono gli altri”, ma esagera.
 Un altro mistero è perché mai questo sgradevole sentimento debba essere attutito proprio lavorando. Perché ci si affretti a mettersi la coscienza  posto riscuotendosi dall’ozio e correndo a fare qualcosa di lavorativo. Certo, su di noi, sulle nostre generazioni, gravano due culture. Quella borghese che si è diffusa nel mondo moderno e che anzi ha istituito il mondo moderno e quella dei lavoratori, che il mondo borghese volevano rovesciarlo e che hanno finito per conviverci, col risultato che alla cultura del commercio e del guadagno, che sono una forma di alienazione della vita umana  si è aggiunta la cultura del lavoro in sé, che, proprio perché in sé e non strumentale a qualcosa, è anch’esso  una forma di alienazione della vita umana. Risultato: si può essere di destra o di sinistra, dal mito del darsi da fare tutto il giorno non ci si salva.
Tutti noi ricordiamo l’opera “Il Giorno”, del Parini, in cui l’autore se la prende con un tipo che chiama “giovin signore” e che rappresenta tutte le smidollagini e le pochezze possibili, per il fatto, imperdonabile, che non lavora.
A parte il fatto che i tempi sono, e da un bel po’, maturi per la composizione di un altro poemetto, magari con lo stesso titolo, che ritragga un giovin signore dei nostri tempi e lo ridicolizzi per i motivi opposti al primo, e mostri il poveretto che crede di vivere in modo conforme agli usi ed ai migliori principi, dandosi da fare continuamente per conseguire guadagni e salvarsi la coscienza mediante un lavoro indefesso che non risparmia nessun angolo della giornata. A parte questo, dico, è certo che il lavoro è diventato ad un certo punto il grande moralizzatore, il lavacro della coscienza umana, almeno dalle parti nostre dove siamo arrivati persino a fondarci sopra la repubblica, come dice la costituzione. La cosa sorprendente, poi, è che chi insistette per farlo furono proprio quelli che viceversa avrebbero dovuto combattere per la liberazione  dei lavoratori.( non stupisce perciò che siano gli stessi che decenni più tardi hanno prodotto la formula della “questione morale”: tormento dei nostri giorni)
 Ma il mito del lavoro ( che il problema è proprio il suo mito, non il lavoro in sé, perché è intuibile che può capitare a tutti qualche volta di lavorare ed in questo non c’è niente di male), come ci spiega il poemetto del Parini, nasce dal dispetto per l’ozio. Voglio dire che, per quanto in modo indiretto, sia  le piazze gremite nel giorno del primo maggio, sia l’acidità delle risposte di chi per i motivi più diversi usa difendersi con la battuta  “Io lavoro…io”, provengono dalla valutazione dell’ozio che  in quell’opera, e a quell’epoca, si definiscono così bene.
 L’ozio è odiato e chi lo pratica è un perverso. Su questi principi nasce gloriosamente la società borghese nella quale, meno gloriosamente, ancora viviamo. La colpa, però, non è del Parini, ma dei tanti giovin signori che praticavano l’ozio senza sapere più perché, e che lo avevano svilito così tanto da portarlo a morte. Dunque l’ozio è stato ucciso dagli aristocratici prima che dai borghesi. E la cosa è avvenuta perchè questa classe di degenerati  era giunta a non ricordarsi più perché andasse difeso e praticato per il bene dell’umanità.
Avverto che nell’ultima battuta non c’è alcun paradosso, perché io credo (conformemente a Pascal) che lo stato di decadenza ed evidente confusione mentale in cui versa l’umanità derivi proprio dalla rimozione dell’ozio e di tutti i valori connessi. Stavolta la parola rimozione è usata quasi nel senso di Freud, perché si tratta di una soppressione apparente che non toglie  alla cosa rimossa di agire, seppur nascostamente, sulla nostra coscienza disturbandola. In breve, siamo disturbati senza sapere da che cosa, al punto che si arriva a credere che la vita stessa comporti questo disturbo, e non vediamo  che quello che ci disturba è un desiderio inconfessabile, ma insopprimibile, che abbiamo commesso la leggerezza di sopprimere.
Leggerezza per modo di  dire, perché la soppressione di questo desiderio avviene per motivi serissimi  tra i quali  proprio il fatto che è inconfessabile e  dal confessarlo o meno dipendono i  nostri rapporti  col resto della società: la nostra, diciamo così, adattabilità ad essa.  Non debbo sottolineare che se una cosa è inconfessabile vuol dire che è sentita come una colpa.
Ora, se il mito del lavoro, che come si è visto è il prodotto del mondo borghese su cui si innesta come apparente avversario, in realtà come corollario, il pensiero marxista, socialista etc., se questo mito, dico, è il modo moderno che l’umanità ha escogitato per lavarsi dalla colpa di desiderare l’ozio , non vuol dire che la colpa nasca lì. La colpa nasce non si sa dove e non si sa quando e ho già detto che si potrebbero fare molte ipotesi che resterebbero tali. E’ certo che   è vecchia quanto l’uomo e , non è una novità, le religioni antiche e moderne vi si alimentano tentando di normarla  di motivarla o, caso raro, come il nostro cristianesimo, di vincerla. Considerazione quest’ultima che ci dice come il cristianesimo abbia finora fallito il suo scopo.
La colpa c’è e questo è un fatto, e che l’ozio sia sentito come colpa  ha un significato che non è qui il caso di indagare, o almeno non così.
Limitiamoci  a riconoscere che tra l’oziare ed il sentirsi in colpa c’è una relazione che la maggioranza di noi conosce, e io azzardo che  chi dice di non  conoscerla, in realtà semplicemente non se ne accorge, perché una delle insidie della colpa è proprio quella di non dare l’impressione di averla. E riuscire a scovarla sotto le sembianze di altri vari fastidi è già un bel risultato.

Ci soccorre  Montaigne, con due fulminanti battute.
 Oggi non ho fatto niente!”
“ Come? Non avete vissuto?”
Il dialogo continua per qualche riga ma l’essenziale è già tutto qui. Il primo si lamenta di se stesso, e si rimprovera la giornata oziosa che nessuna azione utile o, diremmo, socialmente ritenuta tale, può riscattare agli occhi del mondo o per meglio dire ai suoi propri occhi che hanno assunto lo sguardo del mondo su di sé. Si lamenta con l’altro come se volesse essere consolato, o, più propriamente, perdonato. L’altro che è lo stesso Montaigne,  lo libera dall’inganno in cui si trova e gli ricorda la verità.
Montaigne ci ricorda che veniamo al mondo per vivere e non per fare questo o quello, E vivere è la cosa che facciamo continuamente, dalla quale non disertiamo un minuto. Che la nostra vita è costante, continua, ininterrotta e non c’è nessuno atto di essa, per quanto minuscolo e insignificante, che sia meno vita di un altro. Che in ogni momento e in ogni caso noi stiamo già sempre assolvendo al nostro compito  principale. Compito principale che è anche il nostro principale piacere come dimostra il fatto che come abbiamo già detto, nonostante tutti i guai, le atrocità e le fatiche che normalmente la disturbano, la vita umana sulla terra non accenna ad estinguersi. Assolviamo al compito anche quando non facciamo niente, anzi lo assolviamo meglio perché è allora che ci accorgiamo di assolverlo. Non siamo distratti da nulla e ci accorgiamo della vita. Ma questo non è quello che ordinariamente accade. In genere facciamo altro, e quando smettiamo di farlo, quando non facciamo niente, qualcosa ci dice che non va bene. E, per la verità,  sul piano pratico c’è sempre qualcuno pronto a ricordarcelo. Questo avviene in molti modi, normalmente tutti sgradevoli. Si tratta di rimproveri più o meno velati, di derisioni, di censure, come se tra i principali doveri dell’umanità ci fosse quello di impedirsi l’un l’altro di raggiungere la consapevolezza che lo scopo di ciascuno è vivere e basta. Uno scopo che per un caso curioso nascondiamo continuamente sotto quelli che in strategia si chiamano “falsi scopi” e che costituiscono tutto il resto
Dunque la vita è il nostro unico scopo, e il bello  è che non è uno scopo da raggiungere perché lo abbiamo già raggiunto col solo fatto di esserci, in vita,ed è  uno scopo per raggiungere il quale non si deve fare niente.
Questo non è del tutto esatto perché da fare c’è il contrastare l’azione di tutti quegli altri che si sforzano per invidia di impedirci di raggiungere lo stesso scopo che anche loro raggiungerebbero subito se solo smettessero di impedirselo. Solo che se lo impediscono così bene che credono di non poterlo raggiungere mai. Da qui l’invidia per chi mostra di averlo raggiunto, e l’azione efficacissima di suscitare nell’altro il sempre pronto senso di colpa. Ne discende che il sentirsi in colpa è il contrario di vivere, ma la cosa non è ancora, proprio, di dominio pubblico.
Io stesso sono spesso disturbato da amici o conoscenti che  mi passano davanti  indaffarati e vedendomi in ozio seduto ad un tavolino del bar, mi gridano ridendo “bella la vita!”. Pensano di essere stati ironici, ma le parole hanno il loro significato ed essi non sanno di aver detto un’assoluta verità.( che purtroppo per loro non li riguarda).

Appendice sull’Ecologia dell’ozio.
Appartiene certamente alle stranezze umane  il considerare l’uomo in modo diverso dalle piante e dagli animali in ordine a ciò che è buono, e secondo natura, per i rispettivi organismi.
Chiunque di noi veda una pianta nel suo pieno rigoglio: le foglie lucide e luminose, i fiori pieni e dal colore intenso, gli steli dritti, slanciati, elastici, il verde delicato ma sano delle gemme che non aspettano che di schiudersi; chiunque di noi, dico, si trovi  di fronte ad un simile spettacolo, non ha dubbi sullo stato di salute della pianta ed istintivamente, anche senza avere nessuna nozione di botanica, ma per una naturale facoltà di giudizio, conclude che la pianta si trova nell’ambiente ideale per la sua vita, in perfetto accordo col terreno, con l’acqua e con l’aria, con la luce etc. Giudicherà naturale e giusta la sua collocazione, segno che essa si trova nel suo ambiente e nelle condizioni che la natura gli assegna perché essa arrivi ad esprimere il suo tipo, la sua specie, etc. Nessuno si sognerebbe di dire  che quella pianta si trova in condizioni eccezionali che la rendono un caso raro, lontano dalla normalità, né si parlerebbe di fortuna.
 Di fronte ad una rosa viva e vegeta noi sentiamo che la natura ha trovato la sua forma. Più la rosa è bella più è una rosa: quello che tutte le rose dovrebbero essere  e che virtualmente potrebbero essere. E’ solo nelle condizioni ottimali che la pianta diviene quello che essa è nell’ordine o nell’elenco di tutte le piante, al punto che queste condizioni non sono neanche considerate ottimali ma semplicemente naturali e giuste per quella specie.  Diversamente, di fronte ad una pianta avvizzita, cadente, dai colori sbiaditi, secca, è spontaneo pensare di trovarsi davanti ad un errore, ad una malattia, ad un tradimento delle condizioni di natura, e neanche per un attimo pensiamo che quella possa essere la normale condizione di vita di quella specie botanica. Qui la pianta è stata allontanata dalla sua condizione di natura e non si può dire che vive, ma che sopravvive a stento, che muore. È lo specchio di una devianza, di un errore, di una condizione ingiusta. Qualche volta commentandone le condizioni diciamo che  trovarla  così “è un peccato”. Insomma non indica la vita ma la morte. Proprio  il contrario di quello che sarebbe giusto e naturale che fosse.
Questo vale anche per gli animali, più per gli animali selvatici che per i domestici per la verità, dei quali si tollera qualche malanno, in genere causato dai secoli di cattività, e dall’esser molte specie il frutto di un ingegneria umana. Mentre è chiaro che se vediamo un animale selvatico malandato, debole, affaticato, c’è solo un spiegazione, che stia morendo. E nessuno penserebbe vedendo un  orso spelacchiato e indebolito che quella sia la sua natura: che gli orsi vivono così e che sono fatti per vivere così. Può capitare benissimo di vederlo, ma quello che qui interessa e che nessuno prenderebbe la cosa come normale e naturale, considerando, viceversa, una fugace eccezione quella di un orso che sia nel suo ambiente nel pieno delle forze.
Con gli uomini è il contrario. A ciascuno di noi capita ogni tanto di incontrare un amico, un collega, un conoscente, e trovarlo disteso, di buon umore, fisicamente più in forma del solito, la pelle del viso più luminosa, gli occhi più vivi, il portamento più eretto ed elastico, i pensieri rinnovati, calmo. In questi casi subito avvertiamo che qualcosa di fuor dell’ordinario è occorso al nostro uomo. Siamo certi che egli ha avuto la fortuna di trovarsi in condizioni eccezionali: nel senso che fanno eccezione alla regola e che però, giusto il modo di dire corrente, la confermano.
Il corso normale, e starei per dire naturale, della sua vita ha subito un salto, un’interruzione momentanea, una pausa. In breve, è stato in vacanza. E, aggiungerei, ne è appena tornato, perché niente è più effimero degli effetti benefici delle vacanze. Basta tornare alla normalità per vederli svanire in un soffio; e tutti i propositi di prolungare con i più penosi stratagemmi il breve abbrivio di benessere con il quale torniamo alla nostra vita di sempre si disperdono come neve al sole.
Sarà per la rapidità con cui tramontano, che le vacanze e le condizioni di vita che esse rappresentano sono considerate un’eccezione alla normalità. Sarà per la forza e la rapidità con cui il nostro modo ordinario di vivere torna ad affermare su di noi i suoi diritti, che siamo portati a vedere in esso il nostro modo normale e perfino naturale di vivere. Senonchè siamo ad una bella contraddizione. Tra tutti i viventi solo all’uomo sarebbe riservato di vivere soffrendo come se questo fosse naturale. Non dico che gli altri non soffrano, ma quando avviene, a nessuno di noi passa per la testa che sia naturale. Anzi, la sensibilità ecologica, ovvero la sensibilità alle giuste condizioni dell’ambiente naturale e di tutti i suoi membri, l’attenzione a che queste non degenerino, non escano dall’equilibrio utile alla vita, è diventata, di questi tempi, così forte che vedere una pianta o un animale in stato di sofferenza indignerebbe i più.
Nessuna indignazione invece di fronte allo spettacolo di un uomo che esce dall’ufficio con un nervo per capello, giallo, con gli occhi cerchiati, curvo e indaffarato, distratto dalla polemica perenne contro quasi tutto e tutti che gli frulla per la testa con tanta costanza che lui non si ricorda nemmeno come si possa vivere senza, malato, spesso insolente. Questa condizione non ci appare eccezionale come una malattia da curare,  ma è quello che ci aspettiamo normalmente di trovare. La condizione dell’uomo quando è immesso nel suo ambiente. E il fatto che ogni tanto egli ne esca brevemente ed a questo corrisponda una trasformazione benefica delle sue condizioni di salute e d’animo, e ciò avvenga regolarmente, con eccezioni così rare da essere trascurabili e dunque costituendo un esperienza che in termini scientifici risulterebbe tanto verificata da potersi fissare in  una legge, non ci smuove nel cervello nessun pensiero utile. In genere ci limitiamo a sospirare e continuiamo a vivere in questo modo invertito la nostra vita, al punto che di tutti gli uomini si potrebbe dire, e non è una battuta di spirito,  che sono degli invertiti.
Non debbo trarre conclusioni che, diciamo così, si traggono da sole. Se solo ci limitiamo ad applicare all’uomo le considerazioni che spontaneamente applichiamo a qualunque fenomeno della natura, non possiamo che concludere che la condizione naturale per l’uomo è l’ozio. Che solo nell’ozio noi rovesciamo la condizione di invertiti nella quale ci getta il lavoro.
Lo so, a questo punto si tratterebbe di definire meglio l’ozio ed ancor meglio,perché non ci si pensa mai, il lavoro. Un modo sbrigativo ma non inesatto sarebbe quello di dire che l’ozio è l’assenza di lavoro e che il lavoro è l’assenza di ozio. Gli antichi facevano un po’ così quando definivano l’attività, i commerci, gli impegni come “negozio” ovvero come negazione dell’ozio, che per essere messo per primo doveva pur essere considerato qualcosa di importante. Proviamo a fare nella stessa maniera, ma stavolta al contrario. Definiamo l’ozio come negazione del lavoro, il che ci consente di limitarci a definire il lavoro. La fisica, non si sa perché, lo definisce come massa per spostamento, ma questo a noi non serve. La morale corrente dice che nobilita l’uomo, ma questo abbiamo visto che non è vero, a meno di non  considerare nobile ammalarsi e vivere da invertiti. La costituzione italiana, unica, credo, nel mondo libero, lo mette a fondamento della repubblica. Fondamento oltretutto ipocrita in un paese in cui  tutti  mostrano, tutti i giorni, di odiarlo. L’opinione comune è, sul punto, più confusa di quanto crede.
Io propongo una definizione, frutto di osservazioni, che è sufficientemente ampia,  e utile allo scopo prefisso, da permetterci di veder definito per contrasto anche l’ozio di cui abbiamo tanto bisogno.
 Lavoro è, nel senso che qui interessa, ogni attività svolta secondo tempi e modi fissati, anche in maniera molto indiretta e poco evidente, da altri.
 Se ci si pensa un po’, si vedrà che ciò corrisponde alla nostra esperienza e dà conto delle sofferenze e delle malattie che infligge,  della vita da invertiti che ci impone,e spiega,  senza bisogno di aggiungere altro, quali ne siano le  virtù benefiche e, in definitiva, cosa sia L’OZIO.


P.S.  Lo so che la persona sana si adatta perfettamente alle esigenze degli altri e di tutti, non sente la cosa come un’insopportabile schiavitù e vive felicemente integrato nella società non desiderando l’ozio che quanto basta a riposarsi un po’. E so anche che questa è una condizione che ciascuno farebbe bene a raggiungere. Ma, a parte che queste persone sane non è facile incontrarle, io penso  che  tutto andrebbe meglio se la società di cui sopra fosse serenamente consapevole delle considerazioni fin qui svolte.

                                                             Massimo Rosolini

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