... l'evoluzione della descrescita felice ...
Interessante lettura sulla "decrescita felice".
Dall'Espesso di domenica 18 marzo 2018:
Dall'Espesso di domenica 18 marzo 2018:
La “decrescita” è una prospettiva etico-politica
diffusasi rapidamente in tutto il mondo dopo la traumatica crisi
finanziaria del 2008: una catastrofe globale che sembra essere già stata
totalmente e sintomaticamente rimossa.
Ma che cos’è davvero la decrescita? Per Serge Latouche, filosofo ed
economista francese tra i principali ideologi del movimento, «la
decrescita non intende sostituire all’attuale e deleterio significato di
“economia” e di “crescita”, un significato differente - magari dipinto
di verde ed “equo-solidale” - che sarebbe finalmente quello buono. Si
tratta, piuttosto, nientemeno che di uscire dall’economia:
un compito ancora profondamente incompreso dalla maggior parte dei
nostri concittadini, per i quali è difficile accettare il fatto che
l’economia sia divenuta una religione e che bisogna, quindi, cominciare a
costruire una società realmente laica».
Latouche - da uomo di sinistra che ha lavorato molto su Marx - ritiene
anche che, per uscire da questo superstizioso «stato di minorità», ogni
popolo debba riscoprire le proprie radici e tradizioni culturali. La
decrescita, quindi, come sospensione della pretesa delirante e
squisitamente imperialista di avere il diritto/dovere di giudicare i
valori degli altri popoli in base a quelli “universali” che noi
occidentali abbiamo creato, e conculcato a forza, in quasi tutte le
altre culture del mondo. Ma anche, per noi europei, decrescita come positiva riscoperta etica e umana,
prima ancora che politica, dei lavori di un Karl Marx o di un Georges
Bataille; o, per noi italiani, come «ruminazione» della disperata
denuncia pasoliniana della «mutazione antropologica» del popolo
italiano.
La decrescita è dunque una prospettiva che può spaziare dalla riduzione
del “bisogno” smodato di viaggiare turisticamente, all’attutimento
dell’enorme consumo di produzioni “intellettuali” di cui si nutre
l’ipertrofia della cosiddetta industria culturale. Ma soprattutto, dal
punto di vista etico, decrescita significa sospensione radicale
della fede ingenua che nutriamo nei confronti di quelle che ci appaiono
“naturalmente” come le nostre più ovvie ambizioni e aspettative.
Il problema del fallimento del progetto decrescista - almeno in Europa e Usa,
perché invece l’Uruguay ha avuto, fino al 2015, un presidente
decrescista (Pepe Mujica) che ha trasformato radicalmente il paese - va
ricercato nella sua sostanziale mancanza di fascino. La
decrescita infatti, questo è forse il vero limite strategico della
prospettiva di Latouche, non può risolversi in una virtuosa
autolimitazione che la comunità umana - finalmente “illuminata” -
dovrebbe riuscire a imporsi per il bene dell’ambiente e dei rapporti
sociali.
Questa idea, pur rispettabile, non è abbastanza radicale (né attraente).
Per quale motivo infatti - potrebbe ribattere giustamente un signor
nessuno - proprio io dovrei cominciare per primo a limitare la mia
voracità di consumo, le mie abitudini altamente inquinanti e le mie
ambizioni autoimprenditoriali, mentre tutti gli altri se ne strafregano?
La decrescita deve diventare qualcosa di più dell’aspirazione (in fondo
moralistica) a diffondere negli altri un desiderio di “autolimitazione”
rispetto al consumo, alle ambizioni e all’egoismo. Dovrebbe piuttosto
riuscire a mostrare - come ha fatto Bataille, nella propria stessa vita -
che l’uomo e la natura non tendono affatto a reinvestire “naturalmente”
le proprie energie eccedenti per accrescersi indefinitamente (come
vorrebbero la mitologia scientista dell’economia politica, il darwinismo
sociale e tutto il neo-positivismo borghese), ma tendono piuttosto a
godere nel liberarsene, nel distruggerle, nel consumarle in perdita. La “nuova” decrescita dovrebbe presentarsi come un’esperienza della soddisfazione individuale,
e di se stessi, che si ponga esplicitamente ed “egoisticamente” in
concorrenza con quella condensata nell’etica del cosiddetto homo
oeconomicus.
Ciò che è rimosso, escluso, censurato nella maniera più sottile dal
nostro sistema di valori è infatti la gioia, la soddisfazione lucida e
profonda, che tutto ciò che vive - uomo compreso - può provare nel non
avere la minima voglia di “reinvestire”, nel circuito dell’utile e del
profitto, le forze e i beni di cui dispone in sovrappiù. La “festa” è
per Bataille il luogo (sacro e comune) in cui l’urgenza di questo
sperpero, e il rifiuto radicale della logica dell’utile, si fondono
dando vita a inedite forme di socialità e di soddisfazione. La “festa”
di Bataille non si confonde con il consumismo capitalista, né tanto meno
con l’idea latoucheana di una sobria e moralistica autolimitazione del
lusso, della gloria e dell’egoismo, ma ci indica piuttosto la via di una
loro profonda risignificazione al di là dell’utile. La festa come
“altra scena” dove costruire nuove forme - non capitalistiche, né
consumistiche - di socialità, di intimità e di amicizia; dove inventare
nuovi significati delle parole «gloria», «consumo» e persino del tanto
vituperato «egoismo». Uno stare insieme godutamente “in perdita” -
chiamato da Marx anche “coscienza, o orgoglio, di classe” - che magari
ci aiuti anche a vedere più chiaramente la parte che noi stessi
“sfruttati” abbiamo finora inavvertitamente giocato nella logica di
questa assurda «religione economica» di cui siamo - tutti - al contempo
le vittime e gli artefici.
Andrea Muni
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